Andare matti per i Grissini

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Se dici Torino, dici grissino. Non solo perché fa rima ma perché insieme a Gianduiotti e Mole Antonelliana è un po’ uno dei simboli di questa meravigliosa città.

Uno dei più celebri prodotti del torinese, il grissino è ormai internazionale e conosciuto in tutto il mondo. Il suo nome, dal piemontese, deriva da quello di un pane locale di forma allungata, la ghërsa (forza, allenatevi con la pronuncia).

Insomma, alla fine della fiera il grissino non è altro che una ghërsa allungata, un pane croccante e con poca mollica di facile conservazione e altamente digeribile.

Ma se i grissini son noti a tutti, la loro storia non è lo poi così tanto e visto nel 1679 non c’era Barbara D’Urso ad occuparsene, oggi me ne occupo io.

Il povero Vittorio Amedeo II, di stomaco debole e salute cagionevole, non poteva – che sfortuna – digerire la mollica del pane. E visto che il supermercato con i prodotti per intolleranti sarebbe comparso solo secoli dopo, il buon Antonio Brunero, fornaio di corte, si inventò un tipo di pane altamente digeribile.

“Taaa-daan, ho inventato il grissino”, disse il buon Antonio.

Ed ecco che tutti i Savoia iniziarono a sgranocchiare grissini, felici e contenti della loro nuova leccornia.

Ce ne sono di forma diverse, lo saprete.

C’è lo stirato, all’acqua o all’olio, e poi c’è lui, il non plus ultra del grissino: il robatà (che si scrive con la O ma si legge con la U, rubatà).

Ma chi è nato prima? L’uovo, la gallina, lo stirato o il rubatà?

Simbolo della città ormai da tempo, portò il buon Emilio Salgari, veronese, a  definire Torino, Grissinopoli (sì, ci voleva prendere in giro).

Tra le poche cose che ancora non ci hanno fregato sotto il naso e che in molti ci invidiano da tempo, il Grissino era amato anche da Napoleone che, anziché rubarceli, organizzò un servizio di corriera Torino-Parigi per avere sempre a disposizione les petits bâtons de Turin

 Attenzione: creano dipendenza

 

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